Intervista a Yves Nacher

Patrimonio da riattivare, paesaggi da valorizzare ed edifici da rifunzionalizzare in Francia: quali esempi per l’Italia?

L’attività del centro culturale pubblico di cui sono a capo ha una programmazione che mira a mettere in luce e comunicare la relazione tra il patrimonio e la creatività nell’architettura, che si è portati a pensare come incompatibili: il patrimonio come sinonimo di pesantezza o immutabilità e la creatività una sorta di tabula rasa e amnesia volontaria. In realtà non sono due binari che non si incontrano, questa apparente incompatibilità può anzi diventare fertile terreno per l’innovazione e il dialogo con il patrimonio esistente.
Le nostre esperienze, svolte in collaborazione con omologhe istituzioni francesi, hanno riflettutto sulla gestione del patrimonio individuando anche possibili assi di azione (mostre, conferenze e visite).
Il primo considera le trasfromazioni come atti della creazione. La tendenza francese del XX secolo è stata quella di demolire e ricostruire per modificare le funzioni degli edifici. Ma la tabula rasa è solo una necessità inevitabile o può invece avere la stessa “forza” e valore della creazione ex novo? Viviamo un tempo in cui i paletti posti da budget, risorse e necessità di gestione futura sono stringenti che però possono essere anche un’opportunità per il riutilizzo o la reinterpretazione dell’architettura, contro la sua “obsolescenza programmata”: non più “conservare” a tutti i costi in modo dogmatico, ma creare per inventare nuove forme e introdurre nuovi usi e funzioni diversi da quelli originari.
Gli approcci a questa materia sono diversi.
Alcune tipologie di patrimonio hanno sono talmente forti e storicizzate che danno all’architetto spazi di manovra molto ridotti.
In altri casi ci troviamo di fronte a edifici molto ben fatti ma sottostimati dai non addetti ai lavori perché risalenti agli anni 50/60 e soggetti a un’obsolescenza che si deve combattere ottenendo la loro salvaguardia e il riutilizzo creativo.
Il patrimonio in cemento armato, del cui sviluppo la Francia è stata pioniera, è un altro tema fondamentale dell’approccio all’architettura del XX secolo, che pone gli architetti di fronte a edifici il cui apparente “brurtalismo” deve passare in secondo piano rispetto a una logica funzionale che rivela la loro attitudine alla trasformazione.
Esiste poi una quarta famiglia di interventi che ruota attorno al riuso delle “cattedrali dell’industria” che, quando non sono cristallizati dal diventare la mera celebrazione del loro passato, possono diventare vere opportunità per lo sviluppo di altri piani e progetti.
C’è una quinta questione legata più agli obiettivi delle trasformazioni che alla natura del patrimonio di partenza che porta alla trasformazione residenziale creando, nonostante norme sempre più vincolanti, nuovi campi di sperimentazione.
La riconquista del “banale” offre infine un sesto punto di vista: metamorfizzare l’esistente senza valore o interesse apparenti per creare una vera architettura in grado di riqualificare la città.
Il secondo asse “di capitalizzazione” del patrimonio si rivolge agli “attori” dei processi che, spesso collettivi multidiscplinari o cittadini, esplorano potenziali a volte insospettati delle città. Attraverso pratiche collettive e partecipative superano la progettazione tradizionale sperimentando in luoghi o situazioni inaspettate: non più patrimonio “evidente”, e quasi ovvio, ma spazi di risulta e abbandonati dentro le città.
Non rispondiamo ai tempi lunghi della patrimonializzazione solo nel “tempo lungo”, ma nel perenne. Siamo anche interessati agli interventi leggeri e temporanei, che proprio per questo riescono a essere i più creativi, nel pensiero o nelle espressioni, nelle azioni di rigenerazione delle città.
La questione “patrimonio architettonico”/creatività si gioca qui: nella creazione collettiva di spazi pubblici temporanei che durano il tempo di un cantiere, nell’installazione di giardini condivisi in un interstizio urbano, in architetture leggere per spettacoli ed eventi sotto ponti o dentro stazioni di servizio abbandoante.
Un terzo asse di riflessione risiede direttamente nell’economia della costruzione, che è sempre più indirizzata al riutilizzo, in un’ottica “circolare”. Riciclo e riutilizzo sono una risorsa e un’opportunità per città che crescono continuando a consumare materiali, prodotti ed energia. E in tutto questo l’architetto è un attore importante, per la sua capacità di superare le letture meramente economiche (riutilizzare per spendere meno) e ambientali (riutilizzare per inquinare meno) e trovare nel riutilizzo paradigmi architettonici nuovi e originali.
Passare da una logica di demolizione (materiale ma anche di memoria) a una di de-costruzione, con una filiera possibile di recupero/trasformazione/riutilizzo dei materiali, l’architetto può trasformare l’economia circolare delle costruzioni in un motore di innovazione: meno materiale, più materia grigia.
Il patrimonio non è sempre un peso morto e ineluttabile che oppone la sua inerzia alla libertà di inventare: come nel judo, il peso stesso di un avversario produce energia per il movimento. In questo modo l’architettura può avere molte vite.

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