Intervista a Biro

Quanti anni avete?
Abbiamo tutti ventinove anni, siamo coetanei ed ex compagni di università.

Quando vi siete laureati?
Ci siamo laureati tra il 2015 e il 2016.

Rispetto alla vostra formazione, quanta distanza c’è tra il dire e il fare?
Abbiamo studiato tutti al Politecnico di Bari, quindi la nostra formazione universitaria è stata abbastanza simile; molto diverse invece le esperienze lavorative sia curriculari che post accademiche, che ciascuno di noi ha scelto assecondando le nostre vocazioni più spontanee. Quando abbiamo deciso di lavorare con altri colleghi/amici ad un comune progetto di studio, biro+, abbiamo deciso di mettere a sistema le nostre formazioni per affrontare in maniera più completa le problematiche dell’abitare contemporaneo.
Quindi non pensiamo che ci sia necessariamente distanza tra il dire e il fare, solo che qualsiasi tipo di formazione non è mai abbastanza completa da poterti assicurare di essere pronto su tutti i fronti; per questo cerchiamo di portare avanti un costante lavoro di ricerca e approfondimento, e di lavorare con il massimo dell’impegno ad ogni nuovo progetto.

Lavorate in Italia o all’estero?
La sede del nostro studio è in Italia, in particolare a Bari e Milano; ma non vorremmo inserirci in un limite geografico definito. Uno dei punti del nostro manifesto in cui più crediamo è proprio la mancanza di confini. “+” è la consapevolezza della dimensione di gruppo e l’apertura a possibili scenari futuri, alla commistione, allo scambio, alla collaborazione. Ci piace pensare che biro+ non tema le distanze perché si relaziona con una un’ampia rete di professionisti, con cui condivide visioni ed esperienze. La massa a sistema di queste occasioni ci permette di relazionarci a progetti molto diversi per tipologia e scala, sia in Italia che all’estero. Lavoriamo costantemente utilizzando questo approccio, che ci permette di rispondere alla complessità̀ delle problematiche di architettura con interdisciplinarità̀ e multiculturalità̀.

Tre ragioni per cui vale la pena lavorare in Italia e tre ragioni per cui bisognerebbe gettare la spugna?
Non lavorare in Italia non dovrebbe in ogni caso significare gettare la spugna; anche quella di lavorare al di fuori del territorio nazionale dovrebbe sempre essere una scelta dettata, secondo noi, da motivi diversi. Lavorare all’estero ti permette di sperimentare un tipo di progettazione diversa da quella accademica, perché dettata da una storia e da un mercato differente; ti aiuta ad uscire da schemi localistici che rendono meno stimolante il nostro lavoro, che per sua natura ha bisogno di occasioni diverse per maturare una coscienza critica più consapevole; di avere accesso, per lo stesso mestiere di architetto, ad un mercato diverso e regolato da logiche più meritocratiche e meno restrittive.
Ma lavorare in Italia per noi rimane molto importare, per questo motivo abbiamo scelto di fondare qui il nostro studio. La decisione viene dal fatto che pensiamo che tutti abbiano il diritto di lavorare nel luogo in cui sono nati e cresciuti e in cui si sono formati; crediamo inoltre che sia molto importante cercare di dare un contributo all’ architettura italiana contemporanea. Questo non significa che non siamo preoccupati da un mercato che in Italia è molto complesso, sia dal punto di vista economico che amministrativo e culturale, ma abbiamo molta fiducia che la nostra generazione possa dare una svolta decisiva al sistema, o che almeno abbia il dovere di provarci.
Crediamo che l’architettura abbia un valore fondamentale e che condizioni come poche altre cose la qualità della vita delle persone, quindi cerchiamo di rendere produttivi tutte queste consapevolezze legate a dove si sceglie di lavorare e, assecondando il nostro manifesto, non prevediamo che il nostro lavoro debba avere precisi confini nello spazio.

Sogno nel cassetto?
Il nostro sogno nel cassetto è quello di fare in modo di essere sempre fieri del nostro lavoro, senza dover scendere a troppi compromessi; di maturare un’esperienza e produrre una ricerca che ci permetta di avere un’identità riconoscibile e dare un contributo concreto all’architettura e al ruolo dell’architetto Nel nostro manifesto spieghiamo che l’obiettivo di studio è quello di avere un ruolo attivo nella crescita locale a partire da una progettazione dal respiro internazionale, quindi ci auguriamo di riuscirci.

Cosa vi ha ispirato del sito di progetto che avete scelto?
Il sito di progetto scelto è il complesso industriale Yucon; quello che rende l’area particolarmente interessante secondo il nostro punto di vista, è il fatto che si presenti come una sintesi dell’identità del luogo. L’edificio di Yukon si trova tra una serie di ex contenitori industriali ormai per la maggior parte dismessi, che sono la traccia tangibile della storia economica della città. La vocazione commerciale e produttiva di Biella è qui quasi più evidente che altrove, così come sono chiare quali sono state le potenzialità passate e quanto la crisi economica abbia segnato la città, a partire dalla sua architettura. È particolarmente stimolante pensare a come, lavorando su un singolo edificio, si possano innescare comportamenti virtuosi anche sui suoi confini e generare un cambiamento reale sull’area, proprio a partire da dove la crisi economica è iniziata e si è sviluppata.

Un progetto che vi rappresenta?
Scegliere un solo progetto che ci rappresenti tutti è molto difficile, essendo tanti e diversi. Quello che però ci unisce è la condivisione di un atteggiamento alla progettazione che promuova il valore dell’architettura nella società. L’architettura che ci rappresenta non è quella prodotta da un esercizio solo formale ed estetico, ma quella che è cucita sul luogo in cui si trova, perchè diventa strumento concreto per risolvere le problematiche dell’abitare, senza trascurare la qualità degli spazi che genera. ll Vitra Campus a Basilea, in piccola scala o il quartiere Hansaviertel a Berlino ne sono solo alcuni dei tanti esempi. Tutti questi luoghi sono accomunati da una profonda ricerca progettuale, da un risultato assolutamente efficacie nella resa formale ed identitaria, e da sperimentazioni che hanno provocato delle riflessioni profonde non solo sull’architettura ma soprattutto sulle esigenze della società e della committenza in quel momento.

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