Intervista a Marco Morandi, Mattia De Marchi

Quanti anni avete?
Abbiamo entrambi 28 anni, ci dividono 104 giorni a cavallo tra il 1990, l’anno del primo Premio Pritzker italiano, consegnato ad Aldo Rossi, e il 1991 quando lo stesso premio fu vinto da Robert Venturi.

Quando vi siete laureati?
Un anno e 61 giorni fa. Il ventitrè aprile duemiladiciotto. Una bellissima giornata di primavera. Abbiamo concluso assieme e con grande entusiasmo una importante tappa della nostra vita: lavorare per quasi un anno assieme, condividendo non solo le giornate ma anche le abitudini, distribuendosi gioie, sofferenze e fatiche, per poi trovarsi da un giorno all’altro a rivedere tutto, con il desiderio, ogni giorno, di ricominciare da dove ci siamo lasciati.

Rispetto alla vostra formazione, quanta distanza c’è tra il dire e il fare?
Domanda interessante! È evidente la relazione tra i due termini, così come lo è la sequenza logica che le mette su due piani differenti. La nostra formazione, soprattutto grazie alle esperienze fatte di importanti rapporti umani, è stata caratterizzata da una tormentata relazione tra questi due termini, permettendoci quasi sempre di essere idealisti ma abbastanza concreti.
Sono stati molti i momenti in cui “dire“ è servito ad innescare dei processi e fissare delle idee, dove la ricerca e i giovani sogni hanno tenuto alla giusta distanza la concretezza.
Il momento del fare poi, ha selezionato ciò che è immediatamente realizzabile da quello che bisogna saper aspettare con pazienza. Tendere alla promiscuità e all’equilibrio tra i due è sicuramente la condizione a cui guardiamo.

Lavorate in Italia o all’estero?
In Italia, in due città molto differenti: Bolzano e Verona, ad una discreta distanza chilometrica che ci permette di condividere alcuni progetti. Due città molto diverse unite dall’asse del Brennero, che riconosciamo essere un’importante costante della nostra vita. Nati rispettivamente a Trento e Verona, studiato a Mantova e laureati con una tesi a Canedole, dove l’architetto Franco Purini ha immaginato VeMa, una nuova città di fondazione, proprio tra Mantova e Verona.

Tre ragioni per cui vale la pena lavorare in Italia e tre ragioni per cui bisognerebbe gettare la spugna?
Domanda pungente! È molto facile, in questo caso, parlare per frasi fatte rischiando di cadere nel banale. Pensiamo che prima di gettare la spugna bisogna davvero provarci fino in fondo, senza farsi scoraggiare dalla quotidianità intrisa di disincanto, frustrazioni e delle leggi che faticano ad avere una visione per il futuro.
Noi pensiamo che vale la pena restare se si ha un’inesauribile sete di idee, entusiasmo e freschezza, forse tre attitudini più che tre motivi. I momenti storici più difficili hanno sempre lasciato una grande eredità, sia culturale che di valori, non possiamo pensare di tirarci indietro e di non provare a dare il nostro piccolo contributo.

Sogno nel cassetto?
I sogni nel cassetto sono caratterizzati, molto spesso, dalle situazioni che si vivono, in qualche modo hanno una temporalità legata ad una condizione particolare.
Se guardiamo a lungo termine, pensiamo ci si possa accontentare di poco, così come non accontentarsi mai. E il sogno sta proprio qui: riuscire ad essere dei buoni architetti, trovando il piacere del nostro mestiere oltre che ri-trovando il suo valore nella storia che ora alle volte sembra essersi perso, questo senza trascurare nessun valore che possa farci vivere in un modo appropriato.

Cosa vi ha ispirato del sito di progetto che avete scelto?
Tutte le differenti aree di progetto ci hanno colpito per differenti aspetti, ci hanno sorpreso per le grandi potenzialità. Se chiudiamo gli occhi, immaginiamo questi grandi volumi qualche anno fa, a servizio del lavoro e contemporaneamente della società. Luoghi di responsabilità, sintesi di fatica e passione spesso senza più un’identità che sono una grandissima responsabilità per noi. La consapevolezza di quello che sono stati per chi ci ha preceduto è sicuramente l’ispirazione più grande che portiamo dentro di noi e sicuramente quello da cui partire.

Un progetto che vi rappresenta?
Se, interpretando un po’ la domanda, si parla di un progetto in senso generale, e non di un singolo edificio, è evidente che il “Progetto” di Adriano Olivetti ci rappresenta molto. Un progetto che ci sembra ancora molto attuale per concretezza e idealità, un disegno che fa coincidere un’idea di Società con l’immagine di alcune architetture molto interessanti che hanno superato la prova della storia e che ancora oggi, da Ivrea a Pozzuoli, ammiriamo molto.

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