Formazione, globale, locale, patrimonio e territorio. Qual è l’approccio più giusto oggi per l’architettura?
Globale e locale giocano per fortuna in modo conflittuale. La globalizzazione è una realtà di fatto, una realtà che esiste nei mercati e nelle conoscenze. È tuttavia una realtà lontana dallo spirito. Al contrario tanto le persone quanto gli edifici non possono sfuggire al locale. Ovunque essi siano, essi sono legati ad una terra. Questo contatto con la terra, per l’architetto significa appartenere a un Ethos, a una cultura territorializzata. La consapevolezza di questa appartenenza, che si è voluta sottolineare alla fondazione dell’Accademia di Mendrisio, significa ribadire la centralità del fatto etico, costante della disciplina dell’architettura ben prima degli apparati distributivi o delle determinazioni funzionali. Quando si auspica un “architetto territoriale”, si prefigura un progettista capace di riconoscere nello spazio quei valori simbolici, storici, civili che caratterizzano i paesaggi, a partire da quelli prossimi, per raggiungere anche quelli lontani. “Architetto territoriale” è un progettista che sa frequentare il sedimentato e i territori della memoria e sa leggerli nel paesaggio. Questa consapevolezza di sé e del proprio contesto consente di affrontare altri luoghi, altri mondi, e i temi del mondo globale appunto.